Il presepe di Montevergine

Alla scoperta del Presepe della Misericordia

di Emanuele Mollica

Nel pomeriggio del 7 dicembre 2017, in piazza San Pietro, è stato presentato ed illuminato il Presepe della Misericordia.

Il Presepe della Misericordia, collocato al centro della piazza, accanto all’obelisco che, un tempo, era nel circo di Nerone, è ispirato alle linee cardine della tradizione napoletana e campana: i volti, le mani ed i piedi delle figure presepiali, realizzate dalla bottega Cantone e Costabile di Napoli, sono in terracotta dipinta, e gli occhi in vetro. Le dimensioni dei personaggi raggiungono i due metri di altezza; particolarmente estesa è anche la scenografia , opera di Giuseppe Viscardi, dominata dalle rovine di un tempio classico, con volta a cupola, una tipologia definita che rimanda ad opere tra le quali menzioniamo, ad esempio, la nota rappresentazione presepiale di Giovan Battista Polidoro (secc. XVIII-XIX). Come nei presepi napoletani settecenteschi, l’edificio diroccato assurge a simbolo degli antichi culti pagani che si disgregano di fronte al Verbo incarnato.

Sullo sfondo vuoto, emerge, come in un ideale completamento della scenografia, in tutta la sua magnificenza, la basilica di San Pietro, che rappresenta il Tempio Nuovo, simbolo di Cristo e della Chiesa Universale.

Collocata nel mezzo dell’allestimento è la Sacra Famiglia, fulcro di tutta quanta la composizione. La Madonna “diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). Con queste parole, l’evangelista Luca ci proietta in quella che è la notte dei tempi, in cui Gesù venne alla luce in una semplice mangiatoia, ai confini del mondo allora conosciuto. Da quel giaciglio il Signore si è fatto portatore del mesaggio di Amore, Umiltà, Speranza. Egli è il fondamento del mistero universale della Salvezza e, per sottolineare ulteriormente l’importanza che riveste nella storia dell’uomo e nel presepe, come in una ideale linea verticale, sopra di lui è l’angelo della gloria, che stringe nelle mani, come nella migliore tradizione napoletana del Settecento, una ghirlanda di fiori e, ancora più in alto, la stella. Il primo, artefice dell’annuncio ai pastori, ha ali sovradimensionate, artifizio utilizzato per dotare la creatura celeste di maggiore visibilità a tutti coloro che giungono da via della Conciliazione. Nel presepe si crea in tal modo un rapporto con i visitatori che, pur se posti al di fuori della rappresentazione, diventano a loro volta i destinatari dell’annuncio. Le vesti sembrano librarsi nell’aria con una singolare leggerezza, tipica delle figure angeliche mentre la stella è elemento imprescindibile che precede i Re Magi nel luogo dove è nato il Salvatore ed è  il naturale completamento di luce all’imponente nimbo posto dietro il capo di Gesù Bambino.

I Re Magi, con le loro vesti sgargianti e colorate, con motivi di chiaro rimando alle ricercate sete mediorientali, sono in adorazione del Fanciullo. La stella, come detto, li ha guidati fino a Gesù: “Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra”. (Mt 2, 10-11).

Completa la scena della Natività un musicante o, meglio ancora, un suonatore di zampogna, figura tipica dell’entroterra appenninico. Con le note del suo strumento musicale, questo personaggio allieta il sonno del Salvatore.

Fin qui il presepe, fatta eccezione per le colossali dimensioni, riprende in toto gli elementi e le caratteristiche della plurisecolare tradizione napoletana che, prevederebbe, a questo punto, l’innesto di pastori e numerosi altre figure ed elementi presepiali: uomini, donne, bambini, anziani, ricchi, poveri, storpi, locandieri, avventori, macellai, pescatori, fabbri, falegnami, lavandaie e altri personaggi simbolo dei mestieri o di azioni particolari, unitamente ad animali e ad oggetti di corredo. Si tratta di un’ immagine della Napoli sei-settecentesca, di uno spaccato di vita quotidiana, di vita reale, di vita vissuta. Quella Napoli dei quartieri popolari, così pregni di vitalità, di storie, di racconti ultramillenari, un continuum temporale che sembra consumarsi ancora oggi tra i vicoli e tra le pittoresche stradine che, dal centro storico, vanno digradando a mare o s’inerpicano sulle alture; luoghi carichi di un fascino particolare e traboccanti di arte, di storia, di sapori, di folclore, ma soprattutto di devozione religiosa e fede profonda. Questo è il tipico scenario al quale si ispiravano e si ispirano tuttora gli artisti presepiali e cioè la rappresentazione della realtà caratterizzata da una grande quantità di figure che, pur rimanendo immobili, sembrano prendere vita dando l’impressione del movimento. Questo il contesto culturale dal quale trasse ispirazione uno dei più grandi artisti del passato, Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571 – 1610), che fece propria questa caratteristica, riportandola su tela e consegnando all’umanità uno dei più grandi capolavori di arte barocca: le «Sette Opere di Misericordia». Il riferimento al Maestro bergamasco è, in questo contesto, assolutamente pertinente perché finalizzato ad ottenere una chiave di lettura più chiara e comprensibile del presepe. Premesso che l’opera dei maestri Cantone e Costabile di Napoli nasce decisamente da una idea artistica e progettuale differente, chiaramente ispirata al testo «Misericordiae Vultus», scritto da Papa Francesco in occasione dell’apertura dell’Anno della Misericordia, è tuttavia necessario rimarcare che il contesto culturale e sociale a cui si ispirano entrambi, così come il Caravaggio, è quello già descritto della Napoli popolare, all’interno della quale trovano attuazione le sette opere di Misericordia corporale.

Nel dipinto di inizio Seicento, la scena è ambientata in uno dei vicoli del centro storico dove si muovono i personaggi che mettono in pratica le opere. Su di loro dominano due angeli che sembrano quasi planare sugli uomini facendosi portatori di grazia. Dietro di loro, in tutta la sua solenne dignità e delicata bellezza, la figura della Madonna, posta nell’alto dei cieli ma che, con un geniale artifizio, il Caravaggio, maestro del naturalismo, colloca al contempo su di una terrazza che sovrasta il vicoletto, come una donna del popolo con in braccio il proprio bambino, pienamente partecipe delle sventure umane ma compiaciuta della risposta cristiana alle sofferenze, dove vengono messi in atto i gesti di misericordia.

Nel presepe, il richiamo al messaggio cristiano trova piena esaltazione in tutti i personaggi che si muovono intorno alla Natività; si viene a creare, infatti, un legame indissolubile tra l’Emmanuele della Natività e gli uomini, venendo meno quel confine che separa il divino dall’umano, proprio come contemplato nel dipinto del Caravaggio. Ma soprattutto, attraverso le opere di Misericordia, riecheggia l’insegnamento di Cristo che ci vuole portatori di carità, messaggio che trova piena concretizzazione nella rappresentazione presepiale.

Ulteriori elementi di realismo, nella scenografia, oltre al tempio sgretolato, sono le mura diroccate o le stradine malandate. Proprio su uno di questi muri è impressa un’immagine in piccolo della Madonna di Montevergine, una sorta di edicola votiva come le tante che sovrabbondano sulle mura dei palazzi di Napoli, a richiamo dell’omonima abbazia che ha allestito il presepe in piazza San Pietro. Le edicole votive sono a Napoli un elemento che lega le persone ai propri santi protettori; un legame di profonda fede, viscerale, pienamente sentito nella sua sacralità e storicamente attestato fin dai tempi più remoti.

Sotto lo sguardo benevolo della Vergine, si consuma la prima delle sette opere «visitare i carcerati» e la sua collocazione in quel punto non è casuale. L’uomo in carcere non ha accolto Dio nella propria vita e la cella con una sola sbarra assurge a metafora dell’essere umano prigioniero dei propri peccati, che rimanda ad uno stato interiore che può cessare solo col pentimento. La Madonna di Montevergine, posta nell’edicoletta poco più in alto della cella, è della tipologia «Odigitria» e cioè Colei che indica la via, che è quella della Salvezza. La visita ad un carcerato, persona che ha sbagliato in vita, può portare certamente conforto ma anche alla conversione di quest’ultimo, al cambiamento, a farsi egli stesso, un giorno, portatore del messaggio di salvezza di Cristo a un altro fratello in quanto direttamente toccato nel cuore.

Nell’opera «curare gli ammalati» un medico si prende cura di una persona sofferente. La scena è posta davanti a tutte le altre. L’ammalato è certamente bisognoso di cure, di attenzioni, di presenza; egli è debole, fasciato, immobile. Nel rimandare, naturalmente, al dovere cristiano di intervenire di fronte al richiamo dei nostri fratelli bisognosi, per tentare di mitigare le loro sofferenze, i maestri Cantone e Costabile, nella scena specifica, hanno cercato di conferire anche una lettura più intima, nel raffigurare entrambi i personaggi di giovane età, ponendo l’attenzione sul dualismo corpo-spirito; molto spesso, infatti, ci si concentra sull’aspetto esteriore a discapito di quello spirituale.

Le due opere «dar da mangiare agli affamati» e «dar da bere agli assetati», anche se collocate in punti differenti del presepe, sono parte di un unico contesto col medesimo significato. La persona bisognosa di cibo e di acqua è stata realizzata con la bocca aperta e gli occhi spalancati, segno di meraviglia e di stupore di fronte alla bontà d’animo e all’altruismo; anziché compiacersi del dono ricevuto, l’uomo manifesta la propria meraviglia per la gentilezza dell’azione, dal momento che nella società contemporanea i valori cristiani sembrano assopiti; la generosità del prossimo crea sorpresa, stupore, emozione, stati d’animo manifesti nello sguardo del personaggio.

Da notare è anche l’interpretazione dell’opera «alloggiare i pellegrini», rappresentata da una donna che ospita un forestiero, a simboleggiare l’accoglienza disinteressata, con particolare riferimento alla difficile attualità ed all’invito all’accettazione del fratello venuto da lontano, concetto ripetuto in più occasioni dal Santo Padre. Nella tradizione presepiale napoletana è frequente trovare, ad esempio, dei mori nei manufatti presepiali: essi erano al seguito delle ambascerie orientali. Napoli, città cosmopolita, un porto di mare aperto a tutte le culture, soprattutto a quelle del Mediterraneo, assurge a simbolo, da sempre, di questa straordinaria predisposizione del suo popolo e cioè quella della buona accoglienza. Ne sono un bellissimo esempio il vescovo Quodvultdeus e San Gaudioso che, in seguito alla caduta di Cartagine nel V secolo ad opera dei Vandali, furono imbarcati insieme ad altri compagni in condizioni terribili ma approdarono fortunosamente a Napoli, dove vennero accolti dalla comunità locale che mostrò un grande senso di solidarietà. Un mosaico, rinvenuto nelle catacombe di San Gennaro, raffigura e commemora il vescovo moro mentre al santo è stata intitolata un’altra catacomba.

Per  l’opera «vestire gli ignudi» è stata realizzata un’Accademia, ovvero un personaggio interamente scolpito; per tale figura presepiale i maestri Cantone e Costabile hanno tratto ispirazione da un grandissimo scultore del XVIII secolo, quel Giuseppe Sammartino (1720 – 1793), autore del celeberrimo Cristo Velato della Cappella Sansevero, ma anche artefice di numerose sculture presepiali, le cui fattezze rasentano l’eccellenza e sono caratterizzate da uno straordinario realismo, come ad esempio le figure dello storpio e del cercante, realizzate insieme ad Angelo Viva, o tanti altri personaggi dello stesso autore che nei nudi, angeli o personaggi del popolo, ne esalta l’imponenza delle masse che mescola con la bellezza e l’armonia delle forme. La scena presenta due uomini, quasi coetanei, un nobile che dà il mantello ad un bisognoso sdraiato e seminudo: richiama alla memoria il generoso gesto di San Martino di Tours. Si tratta del trionfo della carità da intendersi come segno del voler donare qualcosa di proprio, a imitazione di Cristo, inchiodato su di una croce, che offre sè stesso per la salvezza dell’uomo o del Dio Creatore che, con un atto di amore straordinario, dona la vita. Quest’ultimo riferimento non può non condurre ad una delle immagini più note dell’arte: l’uomo disteso, nella sua nudità, richiama anche alla celeberima «Creazione dell’uomo» di Michelangelo Buonarroti (1475 – 1564), capolavoro dell’arte di tutti i tempi, collocata al centro della volta della Cappella Sistina. La mano che dona generosamente al fratello sfortunato è degna di quella mano che gli ha donato la vita.

Nella scena «seppellire i morti» viene raffigurato un uomo che, dopo aver coperto un defunto, con un estremo gesto di pietà, provvede alla sua sepoltura. Dalla barella si intravede solo un braccio penzolante che è un ulteriore riferimento ad un noto dipinto del Caravaggio, la «Deposizione», custodito nei Musei Vaticani. La scena chiude idealmente il presepe che inizia con la nascita di Cristo. La morte, che è parte integrante della stessa vita, diventa per tutti i cristiani il dies natalis, il giorno di nascita che si identifica nel mistero di salvezza, della vita eterna. Dice Gesù, rispondendo a Marta che aveva appena perduto il proprio fratello: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv 11, 25-26) E rivolto a Marta: “Credi tu questo?”. Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. (Gv 11, 27)”. Ecco, questo è il presepe, Gesù che viene al mondo; è Gesù che viene a donarsi, attraverso uno straordinario gesto di Amore; è Gesù che ci invita ad avere Fede e ad essere misericordiosi verso il nostro fratello meno fortunato: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt, 25, 40). È questo il Presepe, che ci invita alla riflessione e all’azione. È questo il Presepe: il Presepe della Misericordia.

 

 

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